Scuola elementare di Lazzeretto, Comune di Cerreto Guidi (FI). Classe II a.s. 1960/61.

(Il racconto è stato estratto dal libro: Daniela Mancini, La tua storia nella mia, Ed. Ibiskos Ulivieri)

Alcuni ricordi di Lazzeretto agli inizi degli anni Sessanta. Vita di paese: il gelataio, il pescivendolo, il semellaio, la lattaia.

Durante le elementari abitavo con i miei genitori a Lazzeretto. Avendo trascorso la prima infanzia in campagna con i nonni il paese mi dette l’impressione di un luogo di incontro e passaggio di tanta gente. Un andirivieni di persone sconosciute e note, varie per età e mestiere, benestanti e spiantate, boriose e umili. Ogni giorno era speciale perché succedeva qualcosa che mi stupiva.

Da maggio a settembre tra le quattro e le cinque del pomeriggio passava il Lucca col carretto del gelato, spinto dalla bicicletta a motore. Suonava la trombetta per avvisare del suo arrivo e bastava quella per farci accorrere. L’assortimento poteva variare oltre alla crema e al cioccolato, di un altro gusto perché le buche in cui era conservato erano quattro ma una serviva per le forbici con le punte a sfera e la paletta. Il Lucca era un omino basso e grasso con un cappellino bianco alla marinara, preparava con lentezza e meticolosità i coni con le palline di gelato da venti o trenta lire e per gli esagerati anche da cinquanta, ma ci accontentavamo di quello da due sapori. Ai bambini piccoli le mamme lo compravano alla crema da quindici lire.

Il venerdì era la volta del pescivendolo. Trasportava la sua mercanzia su un’Ape grigia, dietro il posto di guida aveva un altoparlante che a ogni fermata ripeteva la cantilena: “E’ arrivato Viareggio, ce l’ho da lesso, da fritto, da arrosto!” Sostava sotto la scuola e al suo richiamo ci saremmo affacciati volentieri per osservare le donne che litigavano con il venditore sul prezzo, il peso e la freschezza dei pesci; in mezzo alla disputa l’ambulante smoccolando li scaricava rabbioso dal piatto della stadera e li incartava con il giornale strappato dal gancio.

La domenica mattina attendevamo con l’acquolina in bocca il Semellaio, vendeva i filini di lusso che chiamavamo Semelli. Si annunciava suonando due volte il campanello gracchiante del motorino, attrezzato con una cassetta di legno davanti e l’altra dietro coperte da un cencio, a seguire profferiva la sua merce con voce decisa e nello stesso tempo garbata come se volesse accarezzarne il gusto delicato e squisito. La mamma ne comprava uno solo perché erano costosi, li divideva in quattro pezzi per inzupparli nel latte: era l’iniziale riconoscimento del giorno di festa.

Un giorno la maestra Tonina portò da Firenze un cartone a forma di piramide triangolare che racchiudeva misteriosamente un litro di latte. Ci sembrò un’invenzione straordinaria, un esperimento stravagante di quelli di città. Celava il liquido bianco e si poteva girare e toccare il tetrapak senza che si rompesse o versasse. Bisognava leggere l’etichetta per saperne il contenuto e il dubbio mai chiarito fu come fosse stato possibile chiuderlo senza rovesciarlo. Nel tardo pomeriggio scendevo in giù, a metà Lazzeretto, con la bottiglia vuota insieme a Sergio e Paolo per comprare il latte da Gina, pensai d’accordo con gli amici di stupirla con il racconto della busta. Ci sentivamo messaggeri del progresso e delle novità della città, aspettavamo chissà quali commenti alla nostra favola bella. Mentre spillava il latte dal bidone di alluminio poggiato sul banco iniziai la narrazione. La lattaia gelò subito il nostro entusiasmo con: “Tanto non ci credo!” Citammo testimoni dell’evento, spiegazioni e descrizioni: invano. Risalimmo a casa sconsolati e delusi.

 

 

 


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