La Materassaia


BIGIA: LA MATERASSAIA

Nel ricordo di bambina mi torna alla mente Bigia, una donnona corpulenta e massiccia, con la testa coperta da un fazzoletto legato dietro la nuca, sotto la crocchia. Veniva a rifare le materasse, al femminile, come si chiamano in Toscana, in campagna ai Tozzini, dai nonni e anche in paese, a Lazzeretto, dai miei genitori. Portava la bella stagione, c’era bisogno di sole per asciugare i gusci, la lana o il crine, che le donne di casa avevano cura di far trovare già lavate e asciugate.

Nonna Maria si vantava che la sua famiglia di mezzadri, da ragazza, non era povera, perché dormivano su materassi di lana, con sotto quelli di vegetale. La lana era merce preziosa, perciò veniva portata in dote e tramandata per generazioni; i fortunati che se la potevano permettere, dormivano sogni tranquilli su un letto che quando i materassi erano rifatti da poco, sembrava una montagna tanto era alto. Chi invece era perseguitato dalla miseria doveva accontentarsi del saccone di tela ripieno con i cartocci del granturco o se appena meno disgraziato, di un giaciglio con dentro erba secca, grigio verde, pressata e compatta che lo rendeva duro come un mattone; si consolava con apprezzarne il fresco in estate.

Prima che Bigia arrivasse le grandi si premunivano di raccomandare a noi bambini di chiamarla ‘Melia’, perché era permalosa e non accettava il soprannome di Bigia. Mi sembrava che non fosse un nome offensivo, anche se condiviso con le gatte. C’era il rischio altrimenti che si riprendesse rabbiosa i suoi strumenti e se ne andasse inviperita, le donne allora dovevano rincorrerla piene di scuse lagnose e mortificazioni, rovesciando qualche scapaccione ai figli incauti per risultare più convincenti. Proprio perché se ne aveva a male i ragazzacci si nascondevano dietro una cantonata e canzonavano: “Bigia Bigia” scappando lesti per non venir riconosciuti e acchiappati.

Nella sacca, nascosto in un astuccio di cuoio, custodiva l’ago, rotondo e con una cruna talmente larga che non c’era bisogno degli occhiali per infilarlo, di una lunghezza intermedia tra quello sottile da sarta e lo schiacciato di venti centimetri adoperato per l’investitura dei fiaschi. Completavano il corredo: lo spago, le forbici, due grembiuli, uno scuro per la battitura e la cardatura della lana o del vegetale, l’altro chiaro da cambiarsi quando iniziava l’operazione di cucitura, e un rotolo di cotone bianco da cui ritagliare i pezzettini per fermare il nodo del filo. Portava imbracciato a tracolla una specie di arcolaio, che una volta aperto somigliava a una culla, coperta da due tavolette con i chiodi ricurvi; su quella che restava fissa, venivano appoggiati i bozzi della lana da allargare, sopra la donna spingeva per il manico l’altra con forza, in un movimento a pendolo dalla pancia all’esterno che lasciava cadere nuvolette leggere e soffici.

Appena arrivata, la committente la rimproverava bonariamente per aver ritardato l’appuntamento, al che l’artigiana subito si scherniva dando la colpa ai temporali e alla gran quantità di richieste, abile però a far intendere che comunque aveva cercato di accontentare e privilegiare la padrona di casa anche rispetto ad altre signore benestanti; con una strizzatina d’occhi confermava la simpatia per quella a cui sul momento prestava i suoi servigi. Nonna Maria fiera di sentirsi tenuta in maggior conto le offriva lesta la colazione: caffè e latte e pane tostato.

All’inizio manifestava interesse solo per il lavoro da svolgere. Prendeva visione del luogo per le operazioni, di solito all’aperto su una stuoia di canne poggiata su cavalletti, su cui, nei giorni precedenti al suo arrivo era stata distesa la lana graticciata, ammatassata in vortici pressati, duri e intricati; una volta battuta per far cadere la polvere, gli spini e i bruscoli, che in terra formavano un tappeto su cui era divertente, nonostante gli sberci delle lavoranti, lasciar l’impronta della scarpa, veniva lavata e asciugata al sole, come pure il guscio, che riceveva le stesse amorevoli cure. Alla fine di nuovo la materassaia la sottoponeva a fiere sferzate e procedeva quindi a ridarle vita con il suo attrezzo, mentre le altre donne, sedute su sgabelli aiutavano a sciogliere i nodi con le mani. Solo Lisa, la vicina, si portava due palette di legno con l’interno foderato con una grattugia d’acciaio; era faticoso strusciare l’una contro l’altra per dipanare i grovigli, così dopo un paio d’ore, con la scusa delle spalle e le braccia indolenzite, si abbandonava al riposo per dedicarsi senza distrazioni alla conversazione. Infine Melia si accertava che nella tela del materasso non ci fossero strappi o sfilacciamenti e imboccava il sacco con i preziosi e morbidi batuffoli. Ridava la forma cucendo ai bordi un cilindro e di seguito i punti da una parte all’altra, infossati e fermati con lo spago sopra il toppino di cotone per impedire che si rompessero, in una geometria di quadrangoli regolari.

Bigia sapeva tutto di tutti.

Si fingeva interessata solo alla sua opera, ben presto alla richiesta di un’informazione su una persona o un fatto che era probabile la donna avesse incrociato nelle sue frequentazioni, subito faceva comprendere con un sospiro accompagnato da un “Eh!” e dal movimento assenziente della testa, che conosceva gli aspetti più reconditi della faccenda.

–  Non mi chiedete niente perché non posso parlare!

Le comprimarie della cardatura, stuzzicate nella curiosità pettegola, insistevano promettendo il silenzio assoluto di quanto avrebbero appreso. Bigia si mostrava sostenuta elogiandosi per la propria riservatezza che non le consentiva di spifferare il misterioso arcano di cui custodiva le chiavi.

– Dalla mia bocca non esce niente!

E giù un’altra sfilata di panegirici alla fedeltà e incorruttibilità della testimone di segreti, fino a quando una di loro gli porgeva l’occasione di affrontare l’argomento con un’osservazione del tutto fuori pista.

– Di sicuro Attilio è fedele a Dora. Saranno chiacchiere di chi gli vuole male!

– Altro che chiacchiere, io ho le prove delle corna! Ma mi dovete giurare che terrete la bocca cucita.

E di nuovo giuri e spergiuri delle astanti e finalmente la narratrice poteva dare la stura ai suoi vènti di maldicenze che soffiando gradevoli portavano il buon umore ciarliero e ridanciano.

Attente a mantenere celate le confidenze per almeno un paio d’ore, finalmente sapevano, e ne godevano, che Attilio si incontrava di nascosto nel bosco dei Poggioni con Bianca, zitella ormai di venticinque anni, screditata e arresa perché lasciata dal fidanzato a sette giorni dalle nozze. La ben informata aggiungeva che il motivo dell’abbandono stava nella stupida sincerità della ragazza che aveva confessato al promesso di aver accettato la corte di un coetaneo. Convenivano in pieno accordo che fosse giusto pagasse lo sbaglio di tale improvvida ammissione, incattivite dal risentimento per l’ingenua, che, diventata pericolosa, costituiva una Venere tentatrice per i mariti.

Senza troppa partecipazione alla sofferenza della moglie tradita, continuavano ciascuna a raccontare episodi per confermare l’infedeltà del marito, tanto che questo appariva assai distratto nel lasciar indizi ovunque delle sue avventure galanti con paesane e forestiere. La voglia di sorprendere spingeva le temerarie delle dicerie a individuare scappatelle in ogni gesto o spostamento dell’uomo; così quando andava al mercato di sicuro era per un incontro amoroso e se si intratteneva a parlare con qualcuna il sospetto era lecito.

Bigia offriva consulenza anche sulle malattie, dava indicazioni sui rimedi per i dolori, il raffreddore, la tosse, prediceva il sesso dei nascituri dalla semplice osservazione della pancia e del viso della gravida, ma era modesta e rassicurante perché dove non arrivava la sua scienza indirizzava a chi rivolgersi per contraddire il fuoco di Sant’Antonio e gli orzaioli, i mal di pancia e per togliere il malocchio. Riconosceva il valore della medicina, come ultima ratio, nel caso non si fosse riscontrato giovamento dalle cure tradizionali e indicava gli specialisti che, garantiti da persone conoscenti, a suo avviso risolvevano i casi disperati.

 

Pubblicato in Antologia del Premio Domenico Rea. Città di Empoli. Ed. IbiskosUlivieri.