E’ la stessa luna?


È LA STESSA LUNA?
Un giorno di cui non saprei indicare l’anno, un commerciante di Firenze,
dovendosi recare a Bologna per affari, pensò di portare con sé la moglie e
il figlio, un pennellone lungo cresciuto più in altezza che in cervello. Era
l’occasione per offrire uno svago alla consorte e nello stesso tempo
introdurre il ragazzo a prender familiarità con gli interessi della famiglia.
Dopo aver cenato si intrattennero con gli altri clienti della locanda e
stimando esser pericoloso avventurarsi per la città sconosciuta di notte, si
ritirarono presto in camera. Dalla finestra penetrava un chiarore lunare
che li attrasse meravigliati, spalancarono i vetri e una palla da biliardo
bianca e lucente, incastrata tra le due torri, li colse di sorpresa. L’incanto
richiedeva l’ammirazione silente, invece il giovanotto se ne uscì con una
domanda.
– Mamma, ma è la stessa luna di Firenze?
Uno scapaccione del babbo gli sciolse il dubbio.
L’episodio è probabile abbia avuto degli ascoltatori nascosti, perché mia
madre me lo raccontava quando intendeva sottolineare l’ignoranza e la
dabbenaggine di una persona.
Oggi riconosco che l’interrogativo ha una sua ragion d’essere e non darei
tanto per scontata la risposta.
Un dato è certo: l’astro notturno non è mai osservato con indifferenza,
che sia cercato o intravisto per caso. La visione suscita un’emozione, ma
lo stato d’animo a sua volta determina la percezione.
Così mi placa e offre sollievo se sono assetato di pace nelle notti inquiete;
il pallore d’alabastro rassicura, mostra il cammino, conduce a un’alba con
meno timore.
Nelle passeggiate d’estate si para davanti e invita ad acchiapparla, poi si
lascia sorpassare alla svolta del sentiero, per ritrovarsela a fianco,
perderla di nuovo e infine scoprire che ci aspetta alla meta.
Interlocutrice, spara le sentenze, che solo io le ho scritto, quando la
rivesto della toga di giudice.
La interrogo come Sibilla per predirmi il tempo dell’indomani, la vedo nel
gioco di scoprirsi e celarsi alle nubi fugaci e la sento portatrice di sole. Per
l’animo vinto dalla malinconia, sarà sopraffatta dalle ombre, offuscata,
minacciata, annuncerà il fastidio del grigio piovasco.
La rabbia e lo sgomento stritolano il cuore e allora il disco appare gelido e
insensibile, disinteressato alla mia sorte.
La luna di sangue, dal riverbero crepuscolare, che ricorda quella
Comanche dei guerrieri pellerossa di Tex Willer, mi diverte foriera di
aspettative d’amori ardenti, al contrario, il suo fuoco ramato opprime con
presagi funesti.
Il plenilunio non è mai lo stesso, i significati sono mutevoli come
banderuole, se guardato da soli oppure in coppia.
Per due che s’amano è il suggello della passione, è luce fredda che
riscalda, è voglia di baci e di racconto.
Nella solitudine dell’amore perduto è il testimone del dolore, confidente
o apatico, amico o estraneo.
È falce che recide il passato, è l’esordio di una nuova vita per coloro che si
riaffacciano alla terra dal baratro, è l’Apocalisse per chi ancora soggiace
nella disperazione.
Pura e tersa, macchiata e corruttibile, bianca di tutti i colori o sporcata di
nero, rosso, blu, giallo, la luna non è mai la medesima e le sue facce sono
infinite agli occhi di chi la guarda.

                                                               Daniela Mancini

Il racconto è pubblicato in Antologia, Che fai tu, luna in ciel! Dimmi, che
fai, silenziosa luna?

Ed. Ibiskos Ulivieri